Manerba del Garda (Brescia) – San Sivino è l’identificazione attraverso la quale comunemente si individua un’antica chiesa che si erge isolata sul promontorio omonimo, affacciato sul lago, nel territorio di Manerba del Garda.
Una leggenda attribuisce a questo luogo il patto, avvenuto in tempi remoti, di un tal mugnaio Marco con il diavolo, per ottenerne i favori terreni, in un accordo rispettivamente siglato con alcune impronte impresse su una pietra che è stato poi però rimesso in discussione, con l’avvicinarsi della resa dei conti, sopraggiunta con il senno di poi, nella più tarda età del mugnaio stesso.
Alle sagome, della mano e del piede, applicate sull’inerte e rosaceo materiale di costruzione, sembra sia stata quindi aggiunta la forma incrociata di più croci, scrupolosamente ricavata per l’esercizio dell’esorcismo che si dice sia stato praticato per dissolvere il pattuito e nefasto accordo della cessione dell’anima da parte dello sprovveduto cristiano.
Il vetusto edificio religioso versa attualmente in uno stato di prostrante abbandono e, con l’ingresso rivolto all’entroterra, rivolge la propria essenziale architettura nella radicata dislocazione impostata sul segmento compreso fra il tramonto ed il sorgere del sole.
Il lago, in pratica, con l’orizzonte interessato alla lontana configurazione della penisola di Sirmione, è alle spalle delle quadrate murature della chiesa, priva di un qualsiasi campanile e dedicata ad un santo non identificato nel martirologio romano, se non nella possibile derivazione di San Sivino dai due San Savino, assurti in epoche antiche agli onori degli altari, fra i quali uno è stato vescovo di Piacenza.
All’interno della struttura, l’ambiente adibito un tempo all’abside conserva l’altare, privo della pietra consacrata, separato dal retrostante muro su cui appare tuttora un pregevole affresco di efficace prospettiva scenica, attorno allo spazio ormai vuoto adibito un tempo a tabernacolo, alle due estremità del quale si distanziano in uguale proporzione due figure di santi francescani, probabilmente sant’Antonio di Padova, raffigurato con la posa di un giglio, e san Francesco d’Assisi, munito del presumibile libro della regola dell’ordine.
Sopra ed al centro di tali figure, sostenuta dai volti di un paio di angeli paffuti, campeggia, fra le colorate decorazioni, la scritta di “Ecce Sacerdos Magnus”, rispondente all’uguale nome di un’antifona cantata in gregoriano, modulata nel testo “Ecce sacerdos magnus, qui in diebus suis placuit Deo. Non est invenutus similis illi qui conservaret legem Excelsi. Alleluia. Tu es sacerdos in aeternum secundum ordinem Melchisedech (Ecco un sacerdote grande, che durante la sua vita piacque a Dio. Non si trovò alcuno simile a lui nell’osservare la legge dell’Altissimo. Alleluia. Tu sei sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedech)”.
Una comunità francescana nel territorio gardesano bresciano non era lontana dal posto. Superato a nord il rude promontorio roccioso della Rocca di Manerba, tra le acque prospicienti San Felice del Benaco, l’isola appunto conosciuta in epoche remote, anche come isola dei Frati, ora più comunemente del Garda o Borghese Cavazza, aveva ospitato un convento ed una rinomata scuola di teologia. La storia di questa stretta lingua di terra, lunga circa un chilometro, tramanda di avere pure accolto in tempi diversi sia san Francesco d’Assisi che sant’Antonio di Padova.
Per trovare oggi i religiosi di San Francesco bisogna remare oltre ed, oltrepassate quelle braccia di lago che, ostentatamente D’Annunzio, nei primi anni Venti del Novecento, prometteva di voler fare a nuoto per raggiungere la principessa allora dimorante sull’isola stessa, approdare a Barbarano, dove è attiva una comunità francescana, a ridosso dell’antico maniero “Terzi Martinengo”, bagnato dalle onde del medesimo vasto bacino d’acque lacustri.
Tra le vicende del suo immemore passato, la chiesa di San Sivino la si incontra ora in un terreno privato ed è raggiungibile però anche dalla sottostante spiaggia che, indifferente e ghiaiosa, precede, sulla parete della litoranea terra prospiciente, quell’intricata vegetazione di alberi, rovi e cespugli offuscanti la visione di una possibile salita all’antico manufatto religioso, a proposito del quale sono in atto studi appassionati da parte dei ricercatori Armando Belelli e Marco Bertagna.
La pietra che tanta misteriosa notorietà rende alla chiesa che guarda verso le colline della comunità di Manerba e rende la parte posteriore al lago, adagiato in un suo piano simmetrico inferiore, è ubicata nella parete meridionale rivolta ad un troneggiante e solitario cipresso, vigoroso nel suo compatto ed artistico avvolgimento a fiammella su se stesso che, quando il sole vuole, vi rivolge l’ombra prodotta dal proprio splendente fulgore.
Quando invece piove, la pietra, interessata ai perduranti e chiari segni delle sedicenti impronte, pare quasi sanguinare, imporporandosi un poco per la rossa cromia permeante l’intera sua marmorea volumetria, di un tipo diverso rispetto ai materiali utilizzati per la costruzione del resto dell’insieme portante quella parete, confacente al nesso intercorrente con il mistero di cui si fa concreta struttura aderente.
Il volume ottavo dell’Enciclopedia Bresciana, curata da mons. Antonio Fappani, riporta particolari chiarificanti quella specificità aneddotica relativa al luogo che assurge a caratteristica rarità, insolita anche sulla proporzione di un’impegnata ricerca, attuata in materia, su una vasta scala di analisi applicata su tutto un altrove possibile: “(…) Al santuarietto è legata una leggenda secondo la quale un certo mugnaio di nome Marco, che aveva messo mulino a Manerba, vedendosi sempre più mancare l’acqua che invece affluiva sempre più abbondante nei mulini del suo concorrente, dopo aver invocato inutilmente S. Sivino, si risolse a chiedere protezione al diavolo, il quale firmò il patto infernale posando il piede sulla pietra sulla quale rimase anche l’impronta della mano del mugnaio Marco. Ma, in morte, dopo che i suoi affari erano andati a gonfie vele con il favore diabolico, Marco si confessò provocando l’ira del diavolo che, dopo aver tramutato in paglia i soldi accumulati, distrusse il mulino. Del patto vengono mostrati ancora i segni della mano del mugnaio e del piede del diavolo, ai quali è stata aggiunta una croce”.
L’alone di una strisciante ed evanescente suggestione, derivante dal suscitato mistero incombente, sembra addossarsi sulla chiesa anche attraverso quell’ombra cupa e soffocante della vegetazione che l’assedia e pare inghiottirne tutto il suo lato di settentrione, fino a farsi pervadente ramificazione di miasmatiche edere rampicanti e di intraprendenti arbusti radicatisi in spazi angusti, mentre il vento ed il cedere della materia sibilano impercettibili voci ad avviso di ulteriori crolli, già sperimentabili concretamente da una sommaria visione commista a quelle sensazioni che ne incuriosiscono la pure attonita vista.
Un oliveto antistante inneggia lanceolate foglie al sole dell’olio di olive pregiate, sullo sfondo di un territorio ondulato dove Manerba corrisponde alla chiesa una propria rivendicante attribuzione, anche per via di quell’iscrizione riscontrabile in un’antica epigrafe sul portale d’ingresso dell’edificio religioso che enuncia “Comunis Manerbae”. In questa pietra di mezzo, sotto la quale si è compiuto, fra luci ed ombre, un innumerevole transito nel tempo delle sue persone, fra le due eloquenti parole scolpitevi si nota chiaramente la raffigurazione accurata di una mano aperta nell’intero ventaglio delle cinque dita, attraverso la singolarità di una caratterizzazione, in questo caso, di chiara derivazione scultorea e non di sprofondante e plurima impronta, misteriosamente evocante una pattuizione improvvida, innestatasi fra l’umano ed il più recesso oscuro arcano che è appunto quella invece suffragante la leggenda del luogo medesimo.
Da un rigoglioso prato, del soverchiante verde circostante, alcuni fiori sembrano prestarsi in rare eccezioni a ghirlande spontaneamente avvinte anche a quell’ancestrale miscelazione di ispirazioni verso l’ignoto da cui pare uscire la chiesa stessa, rivelandosi silenziosamente nel tal quale della sua notevole e tacita testimonianza, al segreto confine dimensionale con il surreale.