Bassa bresciana – Nel calendario rurale di un tempo l’11 novembre, ricorrenza di san Martino, ricopriva una grande importanza. La data rappresentava infatti lo spartiacque tra due annate agrarie successive, segnando la fine dell’una e l’inizio dell’altra. Per dare agio alle famiglie contadine di trovare una nuova sistemazione, i contratti venivano disdettati in maggio, sei mesi prima della scadenza.
L’11 novembre diventava così il giorno dei traslochi e “fa ‘l san Martì” nel gergo popolare diventava sinonimo di trasferimento di residenza. Si trattava generalmente di passaggi da una cascina all’altra nell’ambito dello stesso comune o, al più, tra paese vicini.
La nuova sistemazione non comportava di regola un miglioramento delle condizioni abitative delle famiglie in quanto gli alloggi riservati ai dipendenti agricoli prevedevano un unico grande ambiente al piano terra dotato di un camino ed una analoga stanza al primo piano, spesso tramezzata per dividere i letti dei genitori da quelli dei figli.
I traslochi dei primi anni Sessanta del secolo scorso rimangono tra i ricordi più struggenti della mia infanzia. L’11 novembre e dintorni, col cielo quasi sempre imbronciato, assistevo nella lunga via Roma che attraversa rettilinea Villachiara, al passaggio, non certo allegro, di carri trainati da cavalli carichi di mobili, di masserizie, di attrezzi, della cassapanca col vestiario ed altri con la legna per l’inverno, i polli nella stia, i conigli nella gabbia.
I bambini erano sistemati alla meglio su uno dei veicoli, mentre gli adulti seguivano a piedi verso la nuova abitazione. Allora pochi lavoratori della terra erano proprietari di casa e molte famiglie erano spesso costrette a cambiare alloggio con modalità fedelmente rappresentate nel film “L’albero degli zoccoli” di Ermanno Olmi.
Poi lo sviluppo industriale richiamò l’esuberante manodopera delle campagne verso le città ed i loro hinterland e per molti il “san Martì” divenne definitivo. Si videro allora camion carichi di mobilia e di valigie lasciare il paese per viaggi senza ritorno. In pochi anni la grande migrazione dimezzò la popolazione di Villachiara.
La mia classe, partita numerosa nel 1959, perdeva ogni primo ottobre qualche scolaro, che ho ritrovato in seguito sempre più raramente in occasione delle visite ai parenti. Qualcuno non si è più visto, avendo legato il proprio destino ad altri luoghi e ad altre vite, ma mi ritorna alla mente allorquando il pensiero vola agli anni remoti della scuola elementare.
Chi tenacemente è rimasto in paese è riuscito a farsi una casa, dimostrando il proprio attaccamento alla terra d’origine e ad affetti consolidati. La fine della civiltà contadina, segnata dai suoi immutabili cicli annuali, ha comportato anche quella dei “san Martì”.
La monocoltura del mais a sostegno dei grandi allevamenti di bovini e di suini, ha nel frattempo notevolmente modificato anche il paesaggio. Dopo i raccolti di settembre-ottobre, i campi restano desolatamente vuoti.
Lo stato di abbandono in cui sono lasciati, insieme alle brume che esalano dal suolo e dalle rogge, suscita negli animi un profondo senso di tristezza e di malinconia. Unico retaggio rimasto dell’11 novembre di una volta è il giorno del Ringraziamento che si celebra, con la benedizione delle macchine agricole e le offerte riservate alla Chiesa dalle aziende, nella domenica ad esso più vicina.
Anche se la stagione avanzata regala qualche volta la breve “estate dei Morti”, in questo periodo il tempo volge decisamente al brutto ed i giorni diventano sempre più corti.
Siamo nel pieno dell’autunno e la terra costantemente umida, concede i suoi ultimi frutti: i funghi prelibati che si accompagnano a meraviglia con le carni di maiale e con fette fumanti di polenta; le castagne da gustare in compagnia sotto forma di caldarroste; il vino novello spumeggiante che viene spillato dalle botti per la gioia dei palati.
Nei paesi della pianura la ricorrenza di san Martino veniva sottolineata da alcuni proverbi, veri lasciti di saggezza popolare, oggi quasi del tutto dimenticati. Essi descrivevano in poche parole le peculiarità del momento che si stava vivendo: “L’istat de san Martì la düra tre dé e ‘n puninì”. “Per san Martì sa mangia ‘l nespulì”. “Per san Martì töt al most l’è vi”.
Più che ai bilanci dell’annata san Martino induce a pensare al futuro, al nuovo anno che verrà dopo il freddo ed il riposo invernale. In questo nostro tempo che ha messo in soffitta molti valori del passato, tra i quali quelli religiosi fondanti della nostra civiltà, non possiamo dimenticare che Martino è un santo, per l’addietro assai popolare.
E se in Francia egli è venerato soprattutto come vescovo di Tours e per avere contribuito nel IV secolo all’evangelizzazione delle Gallie, in Italia egli è universalmente conosciuto come cavaliere per l’episodio del mantello condiviso con un povero infreddolito incontrato per strada.
Per questo la Chiesa lo ha proclamato patrono dei mendicanti, dei sarti, degli albergatori e dei soldati. E proprio in questa veste, a cavallo, con la spada, il mantello ed un povero ignudo accanto, il santo è raffigurato nelle numerose pale d’altare a lui dedicate, quale esempio del comandamento divino che recita: “Ama il prossimo tuo come te stesso”.