martedì 24 Dicembre 2024

Quel giorno, sul Vajont

Il 9 ottobre 1963, quasi 2000 persone morirono a Longarone e dintorni, travolte da 25 milioni di metri cubi di acqua, alzati da una frana caduta sul lago artificiale della diga, rimasta intatta.

Non c’è veneto che possa dimenticare quel 9 ottobre 1963. Non c’è abitante delle province che corrono lungo il Piave, le genti di Belluno, Treviso, Venezia, che possa scordare l’orrore che il fiume portava a valle. Fino al mare.

Avevo solo sette anni, ma ricordo fin troppo bene l’eco del Vajont. I titoli dei giornali, le immagini delle carcasse di animali trasportate dal Piave, la voce della radio, i telegiornali. Il silenzio pesante che aleggiava in casa. Un masso sulle coscienze degli adulti.

E poi quella diga che vedevamo ogni anno, estate e inverno, quando si andava in vacanza in Cadore o in Ampezzo. Non c’era l’autostrada. Da Venezia era un viaggio lungo lungo. Si percorrevano il Terraglio, la Pontebbana e poi su verso le curvone del Fadalto attraversando una Val Lapisina non ancora sfigurata dall’A27. E ancora la Cavallera, porta delle Dolomiti e del Cadore, dove mia sorella regolarmente vomitava.

Ci si fermava sempre a Longarone. Una sosta necessaria per noi bambini. Mio papà ogni volta ci mostrava quella grande diga che stava, e sta ancora, in mezzo ai due monti, al confine fra due regioni, sul crinale della follia e dell’avidità umana.

Prima del 1963 ci diceva: “Guardate bambine, la diga! Uno spettacolo di ingegneria!”. Ma dopo quel 9 ottobre, si attraversava Longarone in religioso silenzio. Quasi in colpa per essere vivi. Si taceva fin dal grande ponte sul Piave, a Susegana. Si guardava giù, nelle acque, e si ricordava l’orrore. Poi si saliva verso i monti e mio padre piangeva.

Ogni anno, due volte all’anno, si rendeva omaggio alle vittime. In quel cimitero che a me bambina sembrava assurdo e vuoto. Grande e ignoto. Poi un giorno d’estate, dieci anni dopo o forse più, mio padre decise di portarci a Erto. Un paese quasi fantasma. Uno scenario lunare. Un silenzio che ti sovrastava. Un colpo alla coscienza.

Ci sono tornata più volte negli anni, a Erto. L’ho vista rinascere. Come ho visto Longarone ricostruire un futuro sul dolore. Anno dopo anno. Capannone dopo capannone. Villette e chiese. Cemento e memoria.

Ho ritrovato il Vajont a 24 anni, negli occhi di Tina Merlin, che fu la mia prima “maestra” di giornalismo. Non nei suoi ricordi. Lei, che per anni, nella pagine bellunesi dell’Unità, aveva denunciato il rischio di frana del monte Toc (in veneto vuol dire “toco” ovvero pezzo), non parlava volentieri di quei giorni. Di quanto le costò lottare contro i potenti. Sia dal punto di vista umano che professionale.

Lo ritrovo il Vajont, assieme a Tina, nel bel libro di un’amica, Adriana Lotto, “Quella del Vajont“. Una sapiente lettura delle carte pubbliche e private della giornalista bellunese. Un’opera fortemente voluta dall’associazione Tina Merlin, di cui Adriana è presidente, e dal figlio Toni Sirena. Un libro che rimette insieme i pezzi e le emozioni mute di quella tragedia.

E che prende le mosse da un libro che la stessa Merlin aveva scritto subito dopo il disastro ma che venne pubblicato negli anni Ottanta perché, prima, nessuna casa editrice sembrava interessata a farlo. Un libro rabbioso, tenace, idealista.

Sulla pelle viva è ancora una testimonianza insostituibile per chi volesse capire davvero quello che avvenne prima del 9 ottobre 1963.

Da adulta, da mamma, ripercorrendo quelle strade, attraversando Longarone, guardando la diga che è ancora lì a eterna memoria, non ho mai smesso di raccontare la storia di quella frana ai miei figli. Ogni volta che dal mare   salivamo sui nostri monti bellunesi.

Non ho mai smesso di andare a Erto. Li ho portati fin da piccoli sulla diga. Nel luogo del disastro. Perché potessero vedere con i loro occhi e con le loro orecchie potessero ascoltare le voci di chi non c’è più.

Un “disastro della sottovalutazione del rischio” , racconta l’attore Marco Paolini, che ancora una volta,  sessant’anni dopo ripropone il suo racconto della vicenda, coinvolgendo tutta l’Italia in 700 messe in scena di “VajontS 23”. Un’ azione di “prevenzione civile” spiega, davanti ai rischi della crisi climatica, denunciati anche dal Papa.

 

Note sull'autore

Macri Puricelli
Macri Puricelli
Nata e cresciuta a Venezia, oggi vivo in mezzo ai campi trevigiani. Fra cani, gatti, tartarughe, tre cavalle e un'asina. Sono laureata in filosofia e faccio la giornalista da più di trent'anni fra quotidiani e web. Dal 2000 mi occupo della comunicazione on e offline di Cassa Padana Bcc e dallo stesso anno dirigo Popolis. Quanto al resto...ho marito, due figli e tanti tanti animali.

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