Facile la citazione “Uno, nessuno, centomila”. In realtà, in questa istrionica mostra fotografica, sono, invece, un numero precisato di fotografie ad essere esposte, tante quante risultano quelle che si strutturano a frutto degli scatti fotografici che attengono al ciclo mirato di una ragionata produzione.
Come nell’accennata opera letteraria pirandelliana, dove il profilo identitario procede in una gemmazione che ne differenzia la caratterizzazione, nel caso di questa esposizione, un diversificato coniugarsi, esercitato da una stessa referenza di interpretazione, avviene mediante quel visivo comporsi che si riconduce ad una univoca figura mutante, quella del fotografo autore, sperimentabile, nel suo approccio compositivo, nella oltremodo perseguita natura di una versatile e differenziata estrinsecazione.
Vigasio, nome, qui, non della località veronese, ma cognome a Brescia e da ben lungi, legato al mondo qualificato della fotografia, sottoscrive, nella figura di Roberto Vigasio, questo complessivo cimento, nel raccontare sé stesso entro lo stile di una rappresentazione fotografica, esponenzialmente argomentata nell’insieme di una volitiva sintesi di riferimento.
“Selfportraitproject365”, questo è il titolo della mostra in questione, è allestita al “Ma.Co.F. Centro della Fotografia Italiana” di via Moretto 78 a Brescia, fino a quel 4 di dicembre che il 2022 interseca nella ennesima domenica del calendario dell’avvento natalizio, osservando gli orari di apertura dalle ore 15 alle ore 19, con chiusura al pubblico il lunedì.
Senza eccessive finzioni scenografiche, assecondando intuizioni sempre assimilate ad un corredo di soluzioni strutturate in aderenza al mondo reale, queste fotografie hanno ciascuna una ispirazione differente da poter mostrare, come lo stesso fotografo, protagonista di questa mostra di immagini dimensionate in uguale formato, procede a spiegare: “(…) Si tratta di un lavoro fotografico di autoritratto che mi ha visto scattare ogni giorno, per 365 giorni, una fotografia di me stesso. I miei fedeli compagni di viaggio sono stati un semplice smartphone, le mie emozioni e la mia creatività. Non ho utilizzato attrezzature di studi professionali, né per lo scatto né per la post produzione. Questo progetto mi ha permesso di dare concretezza alla mia concezione di fotografia, intesa, non tanto, come atto tecnico, ma soprattutto come strumento per confrontarsi con sé stessi e conoscersi meglio. (…)”.
Questa mirata conversione, ad un focalizzarsi fisiognomico, ha costante baricentro nel volto, che, a sua volta, spesso appare in evidenza, vuoi con un particolare del viso stesso, vuoi, invece, con il resto del corpo, principiando, ovviamente dal busto o dalla schiena, quali altre parti del corpo, alla stregua del capo, per altro, rasato, fotografate, prive di alcuna copertura, come ad esempio, ancora, anche per la faccia, è comune interazione, contrariamente a quel netto svelamento che, parimenti, continua a poter capitare, con l’applicazione dei noti dispositivi di protezione individuale, alias mascherine, qui, curiosamente, mai utilizzate, nella prolifica sequenza fotografica di questo autore che si inventa di tutto, come, tra altri casi ancora, l’uso di parrucche, o stereotipate code giganti di coniglio, o copricapo ed occhiali da pilota, cuffie, bavaglie e la sovrapposizione di una fra le invalse faccine digitali da emoticons.
L’inventiva è, fra l’altro, rappresentata dal margine di quel corredo fotografico di definizione che è sistematicamente posto a risalto del volto reiterato in vari modi, nella portata delle rispettive fotografie, sia con accorgimenti tecnici sia con accostamenti materiali che con strategici appaiamenti, funzionali a recare la declinazione, spesso affidata anche al colore ed alle ombre riflesse, di espliciti richiami concettuali verso liberi e inconvenzionali atteggiamenti.
Come, fra altre considerazioni, scrive la storica e critica della fotografia, Luisa Bondoni, nel catalogo, per l’editore “BAMS”, di “Selfportraitproject365”, disponibile in mostra: “(…) Il lavoro di Roberto Vigasio ha in sé diversi aspetti interessanti: innanzi tutto che sia un uomo ad aver scelto, sentendo il bisogno di esprimersi in genere autobiografico così forte e potente come l’autoritratto. Vuol dire essere padroni di tutta la creazione artistica, dall’ideazione allo scatto, a essere soggetto. Vuol dire, levarsi, poco alla volta, diversi strati di pelle, vuol dire avere il coraggio di mostrare le proprie fragilità, paure e insicurezze, e, al contempo, dimostrare la propria forza e l’audacia di esporsi (…)”.
Una chiave di lettura di questo tenace e coerente lavoro dell’autore, giunto in mostra a palazzo Martinengo Colleoni di Brescia, che pare potersi, pure, intrecciare con una possibile affabulazione psicologica, a motivo dell’implicita consistenza contenutistica delle fotografie esposte, come, ancora dalle pagine dell’accennato catalogo dell’esposizione stessa, appare sottolineato, fra le riflessioni pubblicate dallo psicologo Riccardo Musacchi: “(…) Gli specchi non hanno memoria, solo le fotografie fermano l’istante e possono essere, spesso, impietose e sempre vere. Le stesse fotografie che ci fanno sentire dentro di noi l’impatto visivo e somatico del rivedersi e, forse, cominciare a provare empatia per l’Altro da sé che, in fondo, è sempre e solo un riflesso di noi stessi”.