Brescia – Edito dalla “Compagnia della Stampa”, il romanzo “La vite e la rosa” si esplica nella contemporaneità, sviluppando tematiche culturali legate ad alcuni possibili e leggendari miti cari ad odierne tendenze di una certa intrigante complessità che ammiccano ai tradizionali retaggi storici ancorati ad una assodata antichità.
Reminiscenze di eresie, colte a contraltare della fede confessionale di un credo ufficiale, riti clandestini affibbiati a streghe presunte o tali, leggende ispirate a fatti storicamente accertati, personaggi realmente esistiti e contestualizzati in una trama romanzata, sono componenti di quanto, nel libro di Luca Falco, pare essere reale, per quella fantasia che amalgama alcuni elementi della storia asseverata, confezionandoli a parti di una medesimo itinerario narrante incredibile, ma sorprendentemente plausibile, se preso entro i confini del proprio scibile, piegato al contenuto di un orchestrato insieme culturale che intende rappresentare in un ambito accessibile.
Volgendosi al passato, con le puntuali digressioni funzionali allo svolgersi degli avvenimenti trattati, il romanzo percorre la strada di ciò che sembra riverberarsi sullo sfondo degli albori della bimillenaria fede cristiana, tralucendo alcuni controversi aspetti che potrebbero forse considerarsi a sequenza mitizzata di certe manifestazioni circa l’origine del cristianesimo, in una forma però differente e quindi alternativa alla versione tramandata dalla Chiesa alla quale la stessa affermazione del credo apostolico risulta, nonostante tutto, ancora radicalmente rapportata.
Finita, da parecchi secoli, l’epoca degli “dei falsi e bugiardi”, la venuta del Messia ha, come scrive San Paolo, “rifondato ogni cosa in Cristo” e quindi, per stare al tema di questo libro, verrebbe a chiedersi che cosa l’uomo, del senso religioso di sé e del mondo, dovrebbe ancora scoprire, se la verità, con la venuta appunto del Figlio di Dio, gli è già stata rivelata ed, in essa, ogni cosa, connessa al mistero della vita è stata, per tutti, svelata.
Una certa letteratura opera però nei margini di confine dove questo processo di rivelazione si è avverato ed in quei percorsi nei quali è stato divulgato, ramificandosi nei molteplici rivoli d’esistenze umane e di culture per le quali tali rivoluzionari irraggiamenti fideistici sono stati filtrati.
Di questo argomento il libro cala la questione in Liguria, nell’alto Mediterraneo di quella porzione europea interessata all’evangelizzazione primigenia, fra le litoranee zone di mare, fino al contiguo entroterra montuoso, dove sarebbero approdate quelle figure di riferimento che, nelle vicende evocate, sono determinanti per tutto un laborioso impianto di denso e di vertiginoso svolgimento, tra i piani elettivi delle dimensioni del tempo dove passato e presente si compenetrano sulla sfida di una ricerca storica mirata ad appurare ed a contemperare quel cristianesimo delle origini che non sarebbe scritto negli Atti degli Apostoli.
Come avanza la figurazione del titolo, il libro esplica “la vite e la rosa” che sono, insieme al pesce, la somma della simbologia di una presunta organizzazione dei seguaci di quella verità che, dal Cristo stesso, passando per Maria Maddalena, avrebbe espresso vita germinativa di un deposito dottrinario destinato ad una segretezza clandestina, riservata a soli iniziati, a differenza della via universale della Chiesa che pare si sia stata invece strutturata secondo la visione di San Paolo di cui strumentalmente si legge, fra l’altro ed in tal proposito, nel libro, secondo una interpretazione che l’autore attribuisce ad uno fra i protagonisti del romanzo, per il tramite di una sua affermazione: “Paolo, essendo un Fariseo, era ovviamente un uomo colto, non un pescatore ignorante. Sapeva scrivere, conosceva il Greco, il Latino ed aveva una buona dialettica, tanto da potersi permettere di parlare all’Areopago di Atene e, sapendo di non essere l’unico a predicare, comprese più di tutti gli altri Apostoli l’importanza del rapporto epistolare per esercitare uno stretto controllo sulle prime comunità, anche ai fini della raccolta delle offerte per il tempio di Gerusalemme. Gesù nel suo messaggio universale dell’avvento del Regno di Dio predicò l’uguaglianza, si fece ultimo per glorificare se stesso, lavò addirittura i piedi ai suoi Apostoli. Non voleva che lo si chiamasse Maestro, né voleva che si sapesse dei suoi miracoli, partecipava ai matrimoni ed alle feste, tanto che i suoi Apostoli venivano chiamati beoni dalla Comunità ebraica. Paolo quasi in contrapposizione a questo messaggio istituì invece la gerarchia ecclesiastica, ripristinando la classe sacerdotale, non fu messaggero di gioia, ma di mortificazione della carne e di sofferenza.
Il messaggio di Gesù venne in parte fuorviato da Paolo che fu, contrariamente a tutti gli altri apostoli, un grafomane indefesso, come si dice ancora oggi “scripta manent vera volant”: Le lettere Paoline furono ricopiate più e più volte, quindi distribuite, per diventare storia. I pochi scritti rimasti diversi nel contenuto dai messaggi di Paolo, furono distrutti nei secoli successivi su ordine dei Padri della Chiesa”.
In questo controverso piano investigativo che tanto ricorda il fortunato effetto di opere conclamate, del genere del “Codice da Vinci”, non mancano figure di sacerdoti, come il noto abate don Berenge Sauniere (1852 – 1917) del misterioso tempio cristiano ed esoterico di Rennes Les Chateaux che in “La vite e la rosa” hanno il nome, fra gli altri, di don Renzo Corucci, in aderenza allo stile anche messo in evidenza nell’introduzione al libro, a firma di Federico Marchi, per cui i “personaggi e l’intreccio della trama, attraverso una meticolosa ricerca di indizi”, abbracciano “il campo della fantasia”, spiegando, al tempo stesso, che trattasi di un “romanzo che si confronta con la storiografia e con la teologia diversa da quella tradizionale”, tanto che i protagonisti delle due “A”, Alice ed Andrea, sono la metaforica sintesi lunare e solare di un percorso di ricerca nell’ottica di un’auspicata ricomposizione di conoscenze perdute ed al tempo stesso ermeticamente celate alla massa, ma orientate al contestuale amore della verità ed all’effettiva fede nella conoscenza.
Come base, a questo insieme di vicende incalzanti, la narrazione parte da alcuni fatti propri della tradizione delle località osservate che è legata alla cultura popolare, rivelando la duplicità di un filo conduttore ambientato nei pressi della serpiginosa “via del sale”, situata tra la Liguria ed il Piemonte, alla quale attribuire la potente ombra contestualizzante di alcuni primi seguaci del Salvatore e di antichi ordini cavallereschi a lui ispirati che, lasciata la cappa e la spada, si sarebbero mimetizzati, attraverso il tempo, in più sottili e comuni parvenze nelle quali, solo nei recessi più riservati, manifestano i gradi segreti della propria scienza occulta.
In questo senso, il romanzo muove anche le corde percettive di una potenziale sensibilità sperimentabile a personale rilettura dei luoghi di culto in generale dove, fra i diversi particolari della devozione liturgica che in essi sono complementari, può capitare a chiunque di imbattersi in aspetti evocativi di contenuti dalle differenti accezioni culturali, come l’occhio onniveggente, formulazione esoterica pure riscontrabile nella tradizione massonica, oppure come la rappresentazione di una civetta, accostata ad Atene, nella figurazione della predica tenuta da san Paolo nella città dell’Aeropago, contraddistinta da questo volatile inteso a suo simbolo, pure emblema però della società segreta storicamente conosciuta come Ordine degli Illuminati, oppure come la serie di scritte decorative esplicitanti citazioni bibliche dalle imperative connotazioni apocalittiche, come “Templum sanctum et terribile ergo sancti estote” che si riconduce alla anche ricorrente enunciazione di “Terribilis est locus iste”, espressa a margine del sogno del patriarca Giacobbe, rapportato alla visione di una scala, percorsa da angeli, congiungente la terra al cielo, come versificazione presente anche all’ingresso della citata chiesa di Rennes Les Chateaux dove, insieme ad altre constatazioni, ne è sortita, in questo caso, una trama costellata da quegli elementi osservati in una doppia lettura alla quale si prestano ad essere considerati.
Nel libro “La vite e la rosa”, la stratificazione dei vari piani di azione attraverso i quali si sviluppa il romanzo nella sua ricca elaborazione, è proteso verso un piccolo frammento di pergamena con un testo in copto sahidico, contenente alcune frasi di un vangelo sconosciuto, ritrovato in una cripta di Bordighera, località ligure dove sant’Ampelio, tra il Quarto ed il Quinto secolo dopo Cristo, ha condotto la propria vita di preghiera, giungendovi dall’egiziana tebaide, rappresentando una testimonianza di quel Dio che nella sua stessa figura agiografica è celebrato nel mistero di una esistenza d’anacoreta a cui un carisma mistico, pure presente tra le pieghe degli avvenimenti del romanzo, è emblematicamente rapportato