“L’Ancella mi saluta con un sorriso dolcissimo e torna correndo tra le folli, dove si recidono giorno per giorno tutti i fiori dell’intelligenza e della pietà; dove esala, giorno per giorno, tutto il profumo dell’anima votata al martirio”: è la versione poetica della quotidianità riguardante una religiosa della “Congregazione delle Ancelle della Carità” che a Brescia, nell’estate del 1910, era presa in considerazione nell’ambito dei servizi alla persona offerti nell’allora manicomio provinciale, per l’assistenza prestata a favore degli ospiti in difficoltà, in relazione ai diversi livelli di criticità e di alienazione, riscontrabili nei soggetti d’ambo i sessi presi in carico da questa istituzione.
A tratteggiarne il benefico profilo, attorno a tale fecondo carisma evangelico disceso dalla testimonianza di Maria Crocifissa di Rosa, fondatrice della medesima congregazione, era Giovanni Banfi, attraverso la stampa di una serie di articoli dedicati ai malati di salute mentale che erano ospitati nel manicomio cittadino verso il quale un approfondimento giornalistico riservava, a quel tempo, i termini di una sommaria descrizione della sua corrispondente realtà, documentata in una significativa panoramica di attenta e di interessante visione di prossimità.
Lungo viale Duca degli Abruzzi di Brescia, l’ATS (Agenzia di Tutela della Salute) occupa attualmente quegli spazi che, allora, erano oggetto di questa attenzione, utilizzandoli come sede principale dei propri uffici amministrativi, di alcuni consultori aperti al pubblico e della direzione.
“La Provincia di Brescia” del 2 agosto 1910 pubblicava con il titolo “Una visita al Manicomio di Brescia” il primo, dei tre complessivi e susseguenti resoconti, che erano improntati al tema, mediante una trasferta sul posto da parte dell’autore stesso, coinvolto personalmente in un effettivo sopralluogo entro i padiglioni dell’ente in questione, fra i quali, nell’articolo che ne costituiva la conseguente esternazione, emergeva, fra altre considerazioni, la favorevole impressione tradotta nella documentata rilevazione che “Debbo pure notare come al perfetto funzionamento del grande istituto contribuisca il personale di servizio addetto all’assistenza dei malati e ai vari servizi generali. Ne fan parte cinquanta infermieri, cinquantadue Ancelle della Carità, ventisei delle quali preposte, insieme con sei laiche, al comparto femminile”.
In tale comparto, contraddistinto da rilevanti devianze psichiche ottenebrate da quelle stranezze spesso accompagnate a peculiari ed a curiose dissennatezze, pare che ci si potesse imbattere in un campionario umano principalmente suddiviso nelle donne abuliche che “non si muovono, non parlano, non esprimono nessun bisogno, nessun desiderio, nemmeno con la mimica facciale”, nelle “folli tranquille convalescenti e lavoratrici”, nelle “malinconiche e indegne” e nelle “agitate”, secondo una sommaria suddivisione delle soverchianti specificità del settore che, in altra stima, erano comprensive anche dei 325 uomini ricoverati, a fronte delle 299 esponenti del “gentil sesso”, pure presenti nella medesima struttura.
Struttura che, ancora scorrendo in lettura l’accennato contributo giornalistico, si rilevava fosse “un immenso giardino ombroso e fragrante, in cui, su due linee laterali, sorgono dodici graziose villette (i padiglioni dei comparti) dotate del confort che meglio s’addica ad ospiti degni di rispetto e pietà; e come i malati vi si trovino sotto ogni riguardo a perfetto loro agio, così che il mal noto e calunniato ricovero, vi appare il soggiorno più confacente a tante lagrimevoli infermità mentali, curabili ed incurabili”.
L’ambiente, a riguardo del quale si spendevano tali parole, era quello a proposito del quale anche l’Enciclopedia Bresciana di mons. Antonio Fappani tratta, in una, rispetto ad esse, più recente edizione tipografica, dove acquisisce un’eloquente visibilità questa peculiare sede ricettiva, alla voce esplicativa che rimanda alle informazioni annesse per una sua storica definizione, sviluppata nel, fra l’altro, sottolinearne l’origine, sottesa a quel periodo dal quale se ne è tramandato l’avvio della sua costruzione: “I lavori, iniziati il 21 marzo 1892 sotto la direzione dell’ing. Isidoro Cacciatore, vennero compiuti entro il 1894 e il manicomio aperto nell’aprile 1894. Costruito in aperta campagna ad un chilometro e mezzo circa dalla città, constava di 24 fabbricati divisi da campi e cortili, distribuiti per la massima parte su due linee parallele, con al centro gli edifici della Direzione, dei servizi generali, della sezione idroterapica. Tutti gli ambienti erano riuniti da un vasto porticato di comunicazione. I padiglioni in numero di 12 (6 per gli uomini e 6 per le donne). Il manicomio occupava in totale un’area di mq. 227251 dei quali mq. 14178 vennero occupati dagli edifici (in numero di 23), mq. 67373 servirono per cortili e giardini e i rimanenti mq. 145700 per la colonia agricola che veniva poi ampliata nel 1903”.
In questa colonia agricola s’imponeva all’attenzione del cronista “un vecchio bassotto e po’ panciuto dal viso rubizzo e dall’espressione gioconda” che si reputava il “Santo Padre”, con un curioso corredo addosso, fatto di “tre o quattro medagliette della Vergine ed altrettanti minuscoli crocifissi”.
A presentarlo, era il direttore del manicomio, dr. Giuseppe Seppilli, che coordinava la visita, cercando di rendere significativa l’esperienza di chi, da fuori, si apprestava ad interessarsi di tutto quanto, ad una certa dinamica di volti e di situazioni, era funzionale a farne sintetizzare le principali caratterizzazioni, in un ambiente riservato a quel genere di peculiarità vestite e calzate dalle estemporaneità delle rispettive personalizzazioni.
Il sedicente “Santo Padre” era lì da trent’anni, indugiando in un ricovero cadenzato dall’avvicendarsi delle stagioni, essendo che, al lavoro dei terreni annessi al manicomio, era stata individuata l’esclusività delle sue occupazioni, fino a farlo assurgere, nel tempo, a riferimento anche per gli altri ospiti lavoratori che lui stesso pare considerasse, come veterano del posto, suoi figlioli, progenie “del padrone dei campi”.
Fra questi “c’è un “figliolo” evidentemente più vicino degli altri alla dignità del “Santo Padre” il quale ci confida in tutta segretezza che è depositario delle “pietre di Sua Maestà il Rosario” e che egli è “Contabile Foriere della Maggiorità dei Re Magi!”. Ne più né meno. E lo dice con tanta serietà che vien voglia… di credergli. Poi c’è un altro “figliolo” che vorrebbe dirci qualche cosa di serio, ma infilza una giaculatoria così babelica, ch’io ne rimango un po’ confuso. E’ un penoso aggrovigliamento di frasi monche ed insensate, il quale traduce l’estrema disgregazione ideologica; ed il prof. Seppilli mi spiega come i tedeschi lo chiamino, con felicissima immagine, l’insalata di parole”.
Dopo questa presa di contatto, sperimentata nella colonia agricola, era stata la volta, per il giornalista, di continuare il suo percorso nei padiglioni manicomiali, rispettivamente riservati ai “malati a pagamento”, agli “epilettici” e, fra gli altri, ai “dementi tranquilli e lavoratori”.
Come appare nell’edizione di stampa del quotidiano “La Provincia di Brescia” del 3 agosto 1910, nel primo ambiente si era fatto notare “un paralitico con delirio di grandezza. E’ un ragioniere, ex direttore di una banca di provincia. Ha in custodia i denari del Re ed ha avuto dal Governo l’incarico di liquidare tutte quante le Banche del Regno, incominciando da quella di Tanlongo e C. Un lavoro enorme, al quale attende quotidianamente per ore consecutive, predisponendo sui fogli di carta una grande quantità di cifre”.
Tra i tranquilli si era, analogamente ad altri, distinto il “vero erede al trono d’Italia, il quale naturalmente considera il nostro Re come un usurpatore”, conformando alla propria persona l’esemplificazione di quei vaneggiamenti che erano apparsi in qualcun altro, tra ile dei restanti ospiti, nella varietà delle manifestazioni ispirate ad “iperattività mentale con efflorescenze poetiche giovanili”, mentre, “a far passare la voglia di inebriarsi con l’alcol”, erano le “allucinazioni terrifiche” che mostravano, nei loro effetti, gli alcolisti, in un fitto circuito di scollegamento con la realtà cogente che, in altri casi ancora, si era pure mostrato nelle rispettive casistiche delle tendenze erotomani, delle velleità puerili, con le inseparabili bambole come “creature di pezza” che pareva “assomigliassero alla madre”, delle invettive del turpiloquio con l’abitudine ad “una tempesta di ingiurie”, del verificarsi di costruzioni mentali immaginifiche, proprie di “un delirio fantastico”, come chi credeva di essere Napoleone e chi, invece, chiuso in una “cameretta di isolamento, riteneva di essere Dio in persona.
Da chi pensava di occupare il sacro ruolo divino, a chi, al contrario, pareva si dedicasse ad “imprecare contro i santi”, con una suora Ancella che non faceva altro che cercare, al contrario, di occuparsi del suo caso, e dal genialoide, autore di un vademecum con “circa 100 svariate invenzioni utili”, ad un “bell’uomo di media età, alto e snello, dalla bionda barba bipartita” che sosteneva che qualcuno quotidianamente si divertisse a trapanargli il cranio, “con lo scopo delittuoso di farvi penetrare il male”, la disamina giornalistica permetteva di far appurare, nel capoluogo bresciano di inizio Novecento, che, di questi casi umani, ognuno fosse “un’entità patologica a sé: un quadro fenomenolitico di epilessia o di ipocondria o di melanconia o di demenza, il quale offre all’occhio dell’osservatore un tale complesso di caratteri o di deviazioni dal tipo classico, da imporsi all’attenzione e da esasperare la curiosità”.