– Sa cicì, sà cicì, sà, sà, sà cicì sà – E’ la voce di Ivan, il pastore. Eccolo sul profilo della pianura, intravedo lui e poi la massa lanosa del gregge, una grande coperta di lana semovente sparpagliata in un campo all’orizzonte. Per incontrarlo, Ivan, m’aveva fornito delle coordinate approssimative; dopo il paese o più il là. Mi sono incamminato di buon mattino dopo il paese e più il là tra campi ingrigiti d’inverno, con stoppie di granoturco avvizzite e la terra con la voglia di aratro. Il paese è rimasto un profilo confuso tra i rami spogli alle mie spalle, spuntava solo il campanile, una matita appuntita che bucava un soffitto di cielo blu dove si rincorreva un gregge di nuvole candide.
La mattina è ancora fredda. Il braccio di ferro tra l’inverno e la primavera, già proclamata dall’equinozio, lo scorgi nei nontiscordardime che scendono con i loro piccoli fiori lungo le spalle del fossato che guarda a meridione, mentre di rimpetto l’erba ispida è infarinata di brina.
– Sa cicì, sà cicì, sà, sà, sà cicì sà – al richiamo il gregge s’incolonna in larga fila, un fiume di lana a grandi anse s’avvicina lentamente, scandito dai rintocchi dei campanacci e i balzi fulminei del cane che fiancheggia il gregge con agili andirivieni, sino al richiamo – Ringo ve en bànda – e Ringo s’affianca a Ivan. E’ una lingua, un idioma dei pastori, “el gai”, tramandato e mai scritto, la parlata della transumanza, un’intesa fra pastore e pecore, fra pastore e cane e fra pastore e pastore al mercato quando si tratta sul prezzo e si gabbano i commercianti.
Una tradizione secolare tramandata da padre in figlio, la transumanza è antica come la storia dell’uomo, scomparsa un po’ ovunque, ingoiata dalla velocità dei tempi nostri, stritolata dai perversi meccanismi di mercato, ma non per Ivan che a 33 anni “i agn del Signur” ( gli anni di Cristo ) continua a fare il pastore. Un mestiere che a sua memoria in famiglia hanno sempre fatto tutti.
Giubbotto e sopra giubbotto di panno, cappello di feltro, scarponi dalla suola gagliarda, Ivan s’avvicina in testa al gregge, cane al fianco e mille grossi gomitoli belanti, ognuno al suo posto secondo gerarchia. Se non fosse per quel telefonino che ogni tanto trilla nella tasca di Ivan, potremmo buttare il lunario o essere in Galilea a guardare la cometa scorrere con le nuvole.
– To oo, to oo – il gregge s’arresta, si sparpaglia nel campo e ricomincia a brucare.
Fare il pastore per Ivan è più che un mestiere, pecore e la transumanza s’avvitano nel suo DNA, un’eredità abbracciata sin da bambino, fatta di spazi aperti, libertà, contatto profondo con la natura.
C’era ancora Garibaldi quando il bis nonno fece i bagagli, radunò le pecore e scese con la famiglia lungo il fiume Oglio da Ponte di Legno in Valcamonica. Nella Bassa, dove viveva un loro parente che faceva il medico condotto, trovarono la “terra promessa” per far pascolare il gregge. I grandi spazi della pianura abbracciarono la famiglia dei pastori. Erba buona, un ricovero per il gregge con un poco di fieno in qualche angolo d’una stalla per l’inverno, in cambio si dava la lana per i materassi e lo sterco per concimare i campi. Così scorreva un tempo la vita contadina, nel sacro rispetto dell’ospitalità per coloro che venivano da lontano.
La fortuna non sorrise ai montanari scesi nella Bassa, il bis nonno perse la vita poco tempo dopo, in una sera di temporale mentre rientrava a casa, il cavallo si spaventò e tutti i sogni finirono in un fossato. Lo zio medico si prese carico del nonno che appena si assicurò sulle proprie gambe riprese con pecore e cane a pascolare nei campi.
Così Ivan, sfidando l’era della velocità e del progresso, vaga con le sue mille pecore, una settantina di capre, quattro asinelli e il fedele cane alla ricerca perenne di pascoli. Durante le invernate il gregge passa da campo a campo, poi in primavera quando l’aratro incalza se ne vanno lungo le anse del fiume dove le pecore vengono tosate e all’arrivo dell’afa si trasferiscono sui monti. Lassù fra le montagne Ivan ascolta il richiamo degli spiriti dei suoi avi, transumanti da sempre.
Parliamo e parliamo, c’è tempo nella lode alla lentezza della sua vita.
Ringo, il cane, è agitato, guaisce, qualcosa non torna. In fondo al campo appena lasciato è rimasto un agnellino solo, è nato da pochi giorni ha perso l’orientamento e sua madre. – Ringo va de sura – Ringo parte come una saetta. Ivan con tranquilla falcata raggiunge il disperso, allunga il bastone dalla larga impugnatura accalappia il piccolo agnello se lo mette in spalla e ritorna al gregge, mentre la madre belante si fa incontro premurosa.
Mi pervade uno strano senso di tranquillità!