venerdì 22 Novembre 2024

Il santuario della Madonna del Carmine di San Felice del Benaco

Patrona della Valtenesi, ma appartenente alla diocesi di Verona: in provincia di Brescia, è parte di quei territori che guardano alla pubblica amministrazione, da una parte, e, all’istituzione diocesana, da un’altra.

Banalità da cosa diffusamente nota, solo quando la si sa. Intanto, il santuario della Madonna del Carmine di San Felice del Benaco, località della litoranea gardesana bresciana, si distingue a peculiare riferimento devozionale entro l’immediato raggio d’azione di una ricaduta d’impatto locale, a sua volta e da sempre, rivelandosi come realtà fideistica rilanciata anche lontano, grazie alla famiglia religiosa dei Carmelitani, sparsa in ogni dove, che ne detiene il caratteristico insediamento spirituale, a prerogativa di una esclusiva specificità consacrata, organizzata in una dimensione conventuale.

Proprio a motivo dei religiosi Carmelitani, all’interno del vetusto edificio religioso che è di schiena al panorama degradante verso il lago, vi appare la rappresentazione di Sant’Alberto da Trapani, famoso esponente di tale ordine religioso, tenuto in quell’alta considerazione in modo da divenire, in seno a tale congregazione, un emblematico personaggio venerato dai suoi stessi eredi confratelli, al punto da ritenere di ingiungerne la raffigurazione negli spazi liturgici del trascendente in cui la titolarità attenga ai medesimi suoi emuli diretti, come in aderenza al mandato di un carisma contemplativo e pastorale, coincidente ad un’avvalorata tradizione che vuol, in linea a tutto ciò, farsi fedele e conseguente.

In questo quattrocentesco santuario ce ne sono addirittura quattro di antiche rappresentazioni di tale santo siciliano.

Il trapanese Alberto degli Abati (1240 – 1307), patrono e protettore dell’Ordine Carmelitano, si trova, in particolar modo, all’interno di questo santuario gardesano, in due rispettivi affreschi nei quali, in entrambi i manufatti, rispetto ad altri due minori, si esplica l’accostamento icastico di una medesima soluzione espressiva nella quale un paio di zampe palmate sono proprie di una non meglio identificabile figura femminile che il santo schiaccia, standoci sopra, calpestandone il corpo disteso.

Molto simili, queste propaggini bestiali, al pari indirizzo pittorico impresso, altrove, dall’artista fiammingo Hugo Van der Goes (1440 ca – 1482) nella sua opera del 1479, dal titolo “Peccato originale e deposizione”, nel quale, il tipo delle zampe della sagoma dalle sembianze umane, ma in realtà dalla natura demoniaca, sono simili a questi affreschi di San Felice del Benaco, rispettivamente a quello coincidente a “La cappella dei quattro Santi” dove il pittore quattrocentesco Paolo da Caylina il Vecchio raffigura Sant’Alberto, con a fianco, Sant’Apollonia, e poi i santi Giacomo e Filippo, analogamente allo stesso santo carmelitano, racchiuso in una serie di quattordici medaglioni pittorici, celebrativi di altrettanti eroi della fede cristiana, quale affresco ritenuto antecedente all’altro.

Questa reiterata metamorfosi di fattezze, fra l’umano e l’animalesco, rappresentate in quella licenza allusiva che era suggerita dalla stereotipata visione d’un tempo, come popolarmente riferita ad una svelata interferenza demoniaca, la si trova esplicitamente nel nesso con una ispirata materia devozionale ad uso di un altare laterale del santuario e di una più esclusiva parte del suo presbiterio, ponendosi da un capo all’altro, dell’edificio, abbellito dalla mano di insigni artisti.

Variante iconografica, questa modalità usata negli affreschi in questione, che è a distinguo della raffigurazione, invece, di una catena, cioè della rappresentazione pittorica di tale vincolo metallico con cui il “serpente antico” risulta essere soggiogato dal santo, nel retaggio di altre opere devozionali dal medesimo significato, come avversario ammansito a seguito di una sua eroica e soprannaturale capacità di affermazione sulla tentazione.

L’edificio religioso, a cui fa da sponda un convento con casa spiritualità per ritiro, vocata all’accoglienza, risale al 1460, con al centro la memoria storica del ruolo prestato per il buon fine di tale iniziativa da parte della famiglia Gonzaga di Mantova, città nella quale risultava più prossima, rispetto a questo luogo gardesano, una comunità di Carmelitani che avrebbero potuto farsi carico anche di un nuovo convento nella terra che li rivendicava.

Dai signori di Mantova, sia nella figura del cardinale Francesco Gonzaga, che nella persona dell’allora signore mantovano Ludovico II, erano giunti gli appoggi appropriati, tanto a livello economico, quanto sul piano di un’approvazione ecclesiastica, perché la devozione popolare, già raccolta in loco, attorno ad una piccola chiesa, concretizzasse, sul posto, il salto di qualità della fabbricazione di un santuario, con tanto di religiosi incaricati che ne garantissero la cura di una sua promozione.

Il principe Vincenzo Gonzaga, vissuto fra Cinque e Seicento, che aveva, fra l’altro, proprietà nell’attuale Toscolano Maderno, anch’essa località rivierasca del bresciano, era un discendente del mecenate Ludovico II, quarto avo, per altro, di san Luigi Gonzaga, che si era rivelato funzionale alla messa in opera del progetto per questa struttura mariana, all’origine dedicata all’Annunciazione di Maria e che, nel tempo, avrebbe preso sempre più piede con la semplice dedicazione significativa della tradizione spirituale propria del “Monte Carmelo”, come ineludibile cifra costitutiva del carisma dei consacrati che tuttora ce l’hanno in gestione.

Il “Carmine di San Felice del Benaco” conosce una battuta di arresto tre secoli abbondanti dopo lo slancio della sua edificazione, per un controverso e sommario intervento di soppressione imposto dalle autorità venete del tempo, inaugurando una risacca di sbandamento dalle finalità spirituali del luogo e di decadimento strutturale del complesso carmelitano che rientrerà in sé, dopo vari decenni di deriva, nella metà del Novecento, come, fra l’altro, scrive Pierluigi Mazzoldi, nel suo volume, “San Felice del Benaco ed il suo territorio”, per la “Tipografia Bortolotti Arti Grafiche di Salò”, precisando pure che: “Il 30 aprile 1952, a cinque secoli di distanza della prima chiesetta ed a 182 anni dalla soppressione, padre Martiano Dalla Libera (1908 – 1980) ed il confratello padre Angelo M. Mirri (1915) prendevano possesso, a nome della comunità dei Carmelitani di Vittorio Veneto, della chiesa e dei resti del convento, che venivano posti sotto il patrocinio di S. Giuseppe. I Carmelitani proseguirono costantemente l’opera di restauro di tutto l’edificio sacro e delle sue pertinenze. (…)”.

Note sull'autore

LucaQuaresmini
LucaQuaresmini
Ha la passione dello scrivere che gli permette, nel rispetto dello svolgersi degli avvenimenti, di esprimere se stesso attraverso uno stile personale da cui ne emerge un corrispondente scibile interiore. Le sue costruzioni lessicali seguono percorsi che aprono orizzonti d’empito originale in sintonia con la profondità e la singolarità delle vicende narrate.

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