di Paolo Zanoni
Il risveglio della primavera si manifesta con lo spuntare di teneri germogli. I tiepidi venti meridionali dischiudono le gemme e fanno uscire dalla terra i getti delle erbe.
La campagna si colora di verdi delicati e l’animo rasserenato freme voglioso di immergersi nella natura. Un tempo, ahimé lontano, questo rapporto era facile e spontaneo. I bambini vagavano liberi nei campi e le donne, custodi dell’antica saggezza contadina, sapevano cogliere nel generale rifiorire vegetale, le erbe adatte ad insaporire minestre, ad arricchire insalate, a preparare pietanze particolari.
Sapori e saperi spazzati via dal fast food e dai piatti pronti serviti quotidianamente sulle nostre mense, ma che talvolta ritornano sotto forma di novità nei menu dei ristoranti. Mia madre, nata e cresciuta in cascina, era una vera esperta di rustici erbaggi, che lei sapeva cernere a colpo d’occhio fra cento altri.
Essi sopperivano allora alla povertà dei mezzi e alla penuria dei generi alimentari su cui poteva contare la gran parte delle famiglie. I sapori inimitabili di certe frittate e di certi minestroni non mi sono affatto estranei e ne conservo nitido il ricordo, tanto che negli ultimi anni ho fatto in modo più volte di ritrovarli concretamente.
Non è che me ne intenda molto di erboristeria gastronomica locale, ma qualcosa del materno insegnamento è pur rimasto. Così nei fine settimana, indossati i panni adatti alle rurali incursioni, mi inoltro per rive, cavedagne, candele di fossi irrigui, prati e maggesi, rincasando quasi sempre con un piccolo tesoro.
Ma prima di sciorinare ai quattro venti le mie assai misere e lacunose cognizioni in materia, mi piace riandare col ricordo alla fanciullezza quando inquadrati in piccole bande di strada si girava a svegher per i campi facendo scorpacciate, oltre che di more e di prugne (nei mesi estivi), anche di erba luina e galèi (in primavera), erbe dal sapore acidulo che i più grandi ci avevano fatto conoscere.
A proposito di galèi e del loro abuso, è illuminante il passo di uno scritto risalente al 1909 del dottor Luigi Mantova, benemerito medico condotto del mio paese: “Nelle nostre campagne nel mese di aprile, nei prati stabili cresce una pianta erbacea che è l’acetosella (rumex acetosa), in dialetto galei. Di essa i fanciulli dei contadini sono ghiottissimi, ed essendo altrettanto non curanti della sua azione tossica dovuta all’ossalato di potassa che contiene, ne fanno delle vere scorpacciate, presentando frequenti fatti di avvelenamento che vanno dalle forme più o meno violente di gastro-enterite, alle forme più varie di convulsioni, ai fenomeni più gravi di intossicazione dell’innervazione cardiaca e del midollo spinale. Ebbene, io non ho mai sentito attribuire questi turbamenti della salute del bambino alla sua vera causa, ma ho sentito sempre invocare la dentizione, i vermi, gli spaventi che hanno ancora tanta parte nell’agitata fantasia di tante povere mamme. E si che in alcune primavere, forse per la maggiore ricchezza del principio attivo, questo vegetale spiega i suoi effetti così su larga scala, da riuscire perfino ad impartire una fisionomia speciale alla patologia infantile di certe plaghe campestri”.
Un tempo chiamata anche aleluia, l’ acetosella veniva usata in decotto per curare le febbri maligne, mentre l’acido ossalico estratto per cristallizzazione dal suo succo, serviva in tintoria per togliere le macchie di ruggine e d’inchiostro. Il dente di leone o tarassaco (da un vocabolo arabo che significa cicoria) è comunemente conosciuto nella Bassa bresciana come grignos, da cui si ottiene per bollitura una cicoria cotta nota come broòt, molto apprezzata condita con sale, olio, aceto e aglio.
Per quanto riguarda le insalate, rarissimo nella pianura è diventato il raponzolo, per il fatto di crescere nelle terre mai arate, mentre i grasèi (valeriana) abbondano nei campi di granoturco, nelle cavedagne e sulle sponde dei canali, dove l’acqua irrigua ristagna e ritirandosi deposita i semi da essa trasportati. La valeriana, nota per il suo effetto rilassante, si può coltivare anche negli orti e si trova facilmente (a caro prezzo) dai verdurai e sugli scaffali dei supermercati, ma non è paragonabile per sapore e consistenza con la varietà campestre.
Se volete gustare una minestra di pasta o di riso dal sapore rusticano, non c’è di meglio che fare uso di tenere foglie di malva e uricine. Qui veramente le mie reminiscenze sbiadiscono e mi riportano al tempo in cui ci si sedeva in estate nelle aie con il piatto fumante sulle ginocchia in attesa che si raffreddasse. In quegli anni esso rappresentava spesso l’unico cibo della cena. I portenti del loertis (luppolo selvatico) sono talmente noti da richiederne solo una rapida elencazione.
Con i bruscandoli (getti) di questa pianta rampicante si possono fare ottime frittate, ma sono eccezionali anche per preparare risotti, bolliti, conditi e cosparsi con grana grattugiato, bolliti e fritti in padella a mo di piccoli pesci d’acqua dolce. Ne è proibita la raccolta per preservarne la specie, dimenticando che la rarefazione di questo vegetale non è dovuta al limitato consumo popolare, bensì all’uso dei pesticidi in agricoltura e all’estirpazione delle ceppaie. In ogni caso i loertis crescono anche lungo le siepi delle cascine e degli orti privati e mazzetti di bruscandoli hanno fatto recentemente la loro comparsa negli ipermercati.
Fino a qualche decennio addietro, quando le rotazioni agrarie prevedevano anche la coltivazione del frumento, la maturazione di questo cereale che ci dà il pane, si accompagnava alla fiammeggiante fioritura dei papaveri. I paesaggi della Bassa nel mese di giugno ne erano profondamente caratterizzati e si prestavano a far da sfondo nei quadri a soggetto agreste e naif.
Forse non tutti sanno che con le rosole, ossia i teneri cespi primaverili del papavero o rosolaccio, i contadini ottenevano un piatto a dir poco esilarante. La ricetta è semplice e di facile attuazione. Si prepara il soffritto con olio e aglio, a cui si aggiungono due o tre cucchiai di doppio concentrato di pomodoro. Dopo un po’ si riempie la casseruola con le foglie ben lavate delle giovani rosole, insieme ad alcune salsicce fresche, in base al numero dei commensali. Si sala quanto basta e si lascia bollire il tutto per il tempo necessario e il piatto è pronto per essere servito.
Una volta al posto delle salsicce venivano usati gli avanzi del cotechino o del salame cotto, tanto per combinare un altro pasto. Esiste una variante che prevede gli spinaci, ma con le rosole il piatto è incomparabile in virtù del particolarissimo sapore di questa erba infestante ora presente solo sui cigli dei fossi, temperato da una punta indefinibile di amarognolo. E vi assicuro che, salvo smentite, nessun ristorante o agriturismo lo prevede nei propri menu.
Questo era uno dei piatti più apprezzati della mia infanzia e fanciullezza. Conoscendo l’erba, ogni anno ne raccolgo la quantità bastante per prenotare a mia sorella questo piatto unico di antica tradizione contadina. Ed è certo che l’esperimento riesce sempre alla perfezione con generale soddisfazione.