Dall’incombere del 2023 prende coincidenza temporale l’iniziativa editoriale di un calendario, atto a coniugare la tradizionale cadenza di una puntuale trascrizione del tempo a venire, con i contenuti che risultano finalizzati, in stampa, a strutturare una coesa e coerente proposta culturale contraddistinguente il suo riproporsi fattuale.
Il nesso, anche a Brescia, sono le dodici mensilità in scorrimento alle quali dare un’esplicita visibilità nel loro grafico avvicendamento, unitamente a valorizzare una serie di informazioni e di curiosità, ispirate al territorio locale, come pure lo stesso ambito bresciano risulta, in tal senso, rivisitato da una sorta di rinverdimento esplicativo, perchè, accanto ai giorni, declinati nel loro progressivo accostamento, siano esplicitate varie e fascinose immedesimazioni, attorno ad altrettanti motivi di plausibili contenuti, ritenuti calzanti nel taglio di un loro correlato commento.
Ancora una volta, cioè, confermandosi fedele ad un’invalsa ed apprezzata sequenza in materia di simili rielaborazioni, è il ruolo della storia che sdogana al presente lo spessore di notizie che, più che rincorrere un declinarsi contingente, associano, alla consultazione del progressivo e del minuzioso profilo delle giornate in corsa, un insieme di tracce legate all’ambito locale, come le stesse appaiono già esplicitate con la scelta del titolo, mediante cui sono presentate nel testualmente contrassegnare la pubblicazione come “Il calendario in dialetto Brescia di una volta”.
Tanto ci voleva, per dire che in prima pagina, come sbrigativamente oggi si userebbe indicare, c’è la riproduzione di “un acquerello d’autore”, in questo caso, dedicato ad una veduta del “castello di Brescia”, quale opera artistica, messa in evidenza, contestualmente alla specificazione grafica di un logo sottoscrivente di che cosa la stampa proceda a trattare, in un modo analogamente caro ad una immediatezza allusiva, che racchiude il nome della città osservata, con l’anno stesso, interessato al calendario, accompagnato dalla scritta “l’almanacco in dialetto”.
Il vernacolo, accanto ad una innegabile ed insopprimibile dichiarazione di vocazione storica, ancor prima, cioè, che si voglia interpretare una praticata devozione al nutrimento generato dalla conoscenza della storia, è altra importante prerogativa di questo calendario, ricercatamente accurato nella realizzazione di uno stile che vuol porsi elegante, accrescendo la propria visiva ossatura essenziale, con “foto d’epoca”, “curiosità della città”, “le tradizionì del passato”, “modi e detti dialettali”, “saggezza popolare”, “ricette tipiche”, “l’oroscopo – i tarocchi”, “cronache del tempo”, “i consigli della nonna”, “costumi e galateo”, “consigli per la salute”, “aneddoti e poesie”, “i pianeti e l’astrologia”, “segni e cabala” e “la virtù delle erbe”.
Quel che è, inevitabilmente, tralasciato, è ciò che, forse, si vorrebbe in aggiunta vedere magari da qualcuno pubblicato, come, presumibilmente, accade, quando, pure a seguito dei numerosi aspetti, veicolati sulle più disparate rotte di un polifagico attenzionare, asservite al portolano d’approdi che appaiono corteggiati nell’intercettare prestigiose evidenze, si sorvolano quelle possibili insenature che sembrano, invece, non mappate, nella cifra, a proprio modo, simile, di una pari somma di altre frequentate e di comunque rivendicate referenze.
L’estesa varietà delle vedute fotografiche di Brescia rispondono ad una cernita di base, effettuata funzionalmente ad una data e certamente significativa rappresentazione, fruibile in questo calendario, per quanto concerne l’apporto della fotografia, come la stessa sua potenzialità visiva si rivela interpretata in anni lontani dal presente, nei quali, ad esempio, spazia la panoramica, in altezza, di piazza Vittoria, con la presenza, allora, effettiva, della marmorea statua originaria del “Bigio”, mentre, scevra da reinterpretazioni che hanno evitato di pregiudicarne la continuità, è, al contrario, la statua severa ed altrettanto strumentale di Arnaldo, a porsi solitariamente in vista della conquista snobista dei costumi, subentrata, da tempo, nell’antica “piazza dei grani”, poco distante, tra l’altro, dal podio esclusivo della pure elitaria corsa della “Mille Miglia”, in un riflesso statuario smaccato sul medesimo spazio a cielo aperto, in faccia alla quale piazza si erge, appunto, il tetro simulacro di questo, solitamente poco conosciuto, eretico medioevale, ripescato a contrapposizione ideale nel tardo Ottocento ed ancora lì, a strutturarne un ostinato ed arbitrario riferimento.
Qui, come altrove, negli angoli cittadini anche valutati dagli estensori della “Celloni Editori”, applicatisi alla messa in atto di questo calendario, il collante d’insieme, è il gergo dialettale di fondo, espresso in citazioni, frammentarie e lapidarie, all’interno di barocchi medaglioni di lettura ad uso di affermazioni sapienziali, che, ancor oggi, esplicano, a vari livelli, una loro giustificata investitura di insegnamento, rispetto alla verità dalla quale si ergono a farsi premura, come, ad esempio, lo si sappia, nei riguardi dell’approccio estemporaneo a seducenti legulei, che “Per venser n’a causa ghe ol tre robe: iga rizù, saila dì e troà chel che la fa valì”, ovvero “per vincere una causa ci voglion tre cose: avere ragione, saperla dimostrare e trovare colui che la faccia valere”, banalità per nulla scontata, soprattutto nell’ultima sua precisazione.
Esorbitano da una caratteristica misura bresciana, pure adottata nel descrivere ispirazioni concatenate al reale, una serie di fonti di lettura, pubblicate in assonanza ad un’omogenea impalcatura stilistica di esposizione che persegue l’interessante via di omologhe contestualizzazioni e di impliciti gemellaggi tra congrue interconnessioni, come fra, ad esempio, la proposta di località storiche, situate fuori Brescia, ma pure, nonostante ciò, in linea con quanto il capoluogo bresciano possa offrire, come, nello spettro pure di altri casi, la esemplificazione data, nella pubblicazione stessa, al noto “Castel Mareccio” di Bolzano, dando, cioè, corpo alla sezione, di mese in mese, presente nel calendario, culturalmente, denominata in modo allusivo il “Bel Paese”, come scritto in tal guisa.
Dal collettivo di simulacri storici e di vetuste rarità patrie, in ogni caso, pure, personalmente vissute, nelle più varie dimensioni individuali di un autonomo sentire, il calendario sfiora la testimonianza del tempo in divenire, con la sottolineatura, invece, propria di peculiari titolarità effettive, connesse ad un mirato proporzionarsi attorno ad un interesse, tematicamente circoscritto, come, chi ha astrologia ed anche cabala, nel dettaglio ermetico da porre in quel bagagliaio di caratteristiche tracce da altrui rimesse, che, in altri casi, invece, sono confezionate nella sintesi di proposte culinarie e, ancor più divaricandosi lo scibile in questione, di esplicitazioni proprie di aneddotiche e di pittoresche cronache su sbiadite contingenze